Camicia

Il primo indumento che viene indossato sul corpo nudo è la Camicia. Confezionata maggiormente con tela di lino per lo più tessuta tra le mura domestiche, la realizzazione della camicia è affidata alle donne di casa. Una bellissima testimonianza ci è data da Alessandra Macinghi Strozzi nelle sue “Lettere ai figli esuli,” dove scrive al figlio Filippo che la tela non è ancora sbiancata “come sarà bianco,le taglierò e cucirò, piacendo a Dio e stando sana”.(1)

Farsetto
Nel suo insieme l’abbigliamento abituale si compone oltre che della biancheria (camicie e mutande), di farsetto e calzebraghe.

Il Farsetto, definito anche Zupone, Zuparello, o Diploide delinea elegantemente il busto, scendendo un poco sotto il punto vita, talmente poco da scandalizzare i predicatori, come S.Bernardino da Siena.

“Veste corta a fil di reni e ben attillata alla cintura, il farsetto è chiuso davanti da bottoniere (farsetto imbottonato) o lunghe file di occhielli, dove viene infilata una cordicella. E’ un indumento imbottito, il nome stesso deriva da fartus, farsa, chiamavano i Fiorentini l’imbottitura di bambagia.

A Venezia invece di farciresi usava dire “ inzupar”. Tale imbottitura, costituita da bambagia di cotone, agisce in parte come protezione del corpo, ma anche come “correttivo”; Viene posta anche a compensare carenze muscolari, conformando così il corpo all’ideale di bellezza imposto dalla moda.

Vi erano divieti sull’uso dei materiali per imbottitura: garzature, cimature, pelame o stoppa, o sulle composizioni truffaldine ossia miscugli di bambagia vecchia e nuova; dobbiamo quindi supporre che l’imbottitura fosse di bambagia nuova e pulita. Il farsetto era opera di artigiani specializzati, appunto i farsettai, a cui erano affidate anche le operazioni di pulitura interna,con cui venivano eliminati i parassiti, e della sostituzione della bambagia usurata per mantenere sofficità e volume.

Veniva confezionato con una grande varietà di tessuti, fustagni, sete, velluti, lane, broccati, lino... Anche il filo con cui veniva cucito era appropriato alla stoffa: refe e seta per le più pregiate, filo generico per le altre. Nella seconda metà del secolo le maniche vengono lasciate parzialmente aperte al giro manica e tagliate al gomito, per dare maggior agio ai movimenti del braccio, creando così il piacevole effetto della camicia in vista dalle “finestrelle”delle maniche. Per tutto il XV secolo il farsetto viene identificato sia nell’abito di tutti i giorni, per il riposo, per passeggiare, lavorare accogliere ”la sposa novella” in camera, sia come supporto integrativo dell’armatura. In conclusione si tratta di un indumento polivalente, capace di trasformarsi in veste da casa, da lavoro e in livrea da parata. Al farsetto venivano allacciate le calze, completando così l’abbigliamento maschile più ridotto.

Calzabraghe

Le calze, o calze a braca, erano opera dei “ Calzaioli”, confezionate con panni di lana; il tipo più in uso era il Perpignano che veniva lavato così da stabilizzarlo, evitando accorciamenti e restringimenti successivi. Una filastrocca dei canti carnascialeschi dice: “finché il panno non è sciutto non si può ma’ ben tagliare; fassi il taglio tristo e brutto chi non lascia rasciugare”. Il modello era piuttosto semplice: le calze venivano tagliate in un pezzo unico con un’ unica cucitura dietro. Nella prima metà del secolo erano separate, cioè prive dell’elemento centrale di raccordo, quindi ogni arto era fasciato separatamente da due gambali che salivano di lato delineando la rotondità dell’anca; restando aperte al centro, lungo il giro del cavallo, mettevano in mostra le mutande e la camicia.

Per rimediare all’inconveniente della camicia in vista, considerato indecente, nel corso del secolo inventarono la “braghetta”, una sorta di borsa posta sull’inguine. Il rimedio però risultò più scandaloso dell’inconveniente, per la spudoratezza di esagerarne l’imbottitura, mettendo quindi più in evidenza ciò che si sarebbe dovuto nascondere. Usata in alcuni casi come una vera e propria tasca (in un quadro del Carpaccio ora a Lugano è ritratto un giovane con una carta ripiegata e infilata nella braghetta) si presta inoltre a curiosi motivi decorativi, riprendendo al contrario i colori delle calze dimidiate.

A nulla servirono le leggi suntuarie emanate nel tentativo di limitare le dimensioni che, come vedremo nel secolo successivo, assumeranno la forma di un cono rialzato con evidente simbolismo fallico.

Le calze dovevano essere ben tese e aderenti alla gamba, le calze molli erano sinonimo di disordine e di trascuratezza; per quanto riguarda i colori troviamo calze “dimidiate,” quando i gambali erano di colore differente uno dall’altro, “addogate,” quando gli inserti colorati erano a strisce, “sbarlate” quando erano interrotte sotto il ginocchio da una decorazione orizzontale; si nominano inoltre calze scaccate, frappate e divisate. Queste ultime portano solitamente i colori e le imprese dei signori, sono spesso citate le calze “alla sforzesca”( un gambale rosso e l’altro bianco e blu).

Nel “Diario fiorentino” di B. del Corazza si descrivono al principio del secolo calze elegantissime con ricami di perle. L’iconografia quattrocentesca ci mostra i gentiluomini con le calze allacciate al farsetto e ben tese, mentre la classe lavoratrice (muratori e contadini) le lasciano ricadere a campana o le arrotolano sopra o sotto il ginocchio per avere movimenti più liberi.

Giornea

Sul farsetto poteva venire indossata la Giornea, sopravveste elegantissima e giovanile prende il posto della Guarnacca trecentesca; è’ un indumento di carattere militaresco, (nelle carte del Colleoni vi sono annotate “Zornee per i suoi militi”), si tratta di una sopravveste smanicata, aperta sui fianchi, spesso ornata di frappe e intagli, a volte bordata o foderata di pelliccia.

Svariate sono le fogge delle giornee: a pieghe piatte, a cannelli, lisce. Come abbiamo già visto, veniva indossata sul farsetto, trattenuta in vita dalla cintura, a volte solo sul davanti, lasciando il dietro libero a mantello. Sovente venivano confezionate con tessuti molto preziosi. Il doge Francesco Foscari, in una giostra in occasione del matrimonio del figlio mise in palio una “Zorneda de veludo cremesina piena de argento”.

Pellanda

Indumento alquanto importante era la Pellanda; una sopravveste aperta davanti con maniche a volte ampie, spesso foderata di pelliccia; la si usava per uscire di casa ed era completata dal cappuccio per quando c’era brutto tempo; la Pellanda di gala era lunga, mentre più corta era quella di uso comune o per cavalcare. Anche questa sopravveste, come del resto tutti gli indumenti, poteva essere confezionata con stoffe ricchissime e ornate con ricami e decorazioni soprattutto sulle maniche.

Nella seconda metà del secolo la Pellanda viene sostituita dalla Roba e dal Robone che hanno comunque le stesse caratteristiche della Pellanda; robe e roboni vengono nominate in tutte le regioni, con diversi nomi secondo il modello: Asnella (aderente) Bastarda (corta) Rocegant (con strascico), alla Lombarda, allaTurchesca, alla Castigliana.

Le vesti sono per numero e per frequenza l’indumento più comune adottato da quanti per età o per dignità della posizione politica o sociale occupata non ritenevano opportuno indossare capi molto corti e aderenti.

Il termine veste stava ad indicare un indumento che si indossava direttamente sul farsetto Il loro aspetto è molto simile alla gonnella trecentesca, ma con maggior varietà di stoffe, di tipi di maniche e di lunghezze, ad esempio “a mezza coscia, a mezza tibia o lunghe”.

Le vesti lunghe hanno di solito un carattere di distinzione accademica, per medici, notai e avvocati. Interessanti particolari sulla forma delle maniche appaiono nella descrizione di alcune vesti appartenute al veneziano Giovanni Venturini, morto nel ‘454: “una pavonazza con maniche rotonde, una di grana con maniche a cubito, due con maniche a comeo o aperte”. Leon Battista Alberti nel suo “Governo della famiglia” ci informa che la lunghezza della manica poteva servire da tasca.

Copricapo

Nel XV secolo troviamo una grande varietà di fogge per quanto riguarda i copricapo, ma fin dopo la metà del secolo il Cappuccio è ancora un elemento importante dell’abbigliamento, può essere indossato sul mantello o sulla Pellanda, a riparo dalla pioggia come il ”Capiron da pioza”.

Tuttavia nel quattrocento sotto il nome di cappuccio troviamo un copricapo che non ha nulla a che vedere con il cappuccio antico. Si tratta di un cappello composto da tre parti: Mazzocchio, il cerchio imbottito di borra che gira intorno alla testa, Foggia, la parte superiore raccolta in un mazzo di pieghe che pende verso la spalla coprendo la guancia, Becchetto, una lunga striscia di tessuto che poteva arrivare fino a terra e si portava avvolta intorno al collo quando veniva indossato o appoggiata alla spalla con il resto del cappuccio pendente lungo la schiena.

Molto frequenti sono le berrette; quasi sempre di colore rosso, prendevano il nome da paesi stranieri, anche se venivano prodotte in Italia. A Mantova se ne producevano del tipo italiano, francese, tedesco, spagnolo.

Una berretta tipicamente italiana è il Berretto alla capitanesca, di colore rosso, indossato da condottieri e da signori. Nella “ Vita di Fortebraccio” del Campano viene descritta come “ Una berretta rossa e tonda che quanto più si innalzava dal capo tanto più si giva allargandosi”.

La berretta alla sforzesca, indossata dai giovani della “Compagnia della calza”, dovrebbe essere la stessa cosa poichè la vediamo indossata da tutti gli Sforza, da Francesco a Ludovico il Moro, ed il suo uso doveva essere molto esteso, in quanto la ritroviamo nei ritratti del Colleoni, di Federico da Montefeltro, dei Gonzaga.

 note :

1) A.Macinghi Strozzi “Lettere di una gentil donna fiorentina del XV secolo ai figli esuli “lettera del 19 Giugno 1464 e del 8 Maggio 1469